domingo, 5 de febrero de 2012

L'UNIVERSITÀ SPIEGATA AGLI ITALIANI

Parlare dell’università italiana meriterebe un discorso così lungo che a mala pena potrebbe entrare in un libro. Ma proverò qui ad analizzare le cause del disastro italiano in poche righe e parlando chiaro, anche sulla base della mia esperienza personale.

Ho letto un articolo in cui il viceministro Martone ha definito sfigati e bamboccioni gli studenti italiani fuori corso e che la colpa è loro e del loro scarso senso di responsabilità (v. Repubblica). Ha ragione. E, come si sa, la verità fa male. Ma doveva dire anche tante altre cose, come per esempio, che la colpa è dei genitori affetti da titolite, contratta a causa di un’atavica abitudine al rispetto per la gerarchia piuttosto che per il valore umano, doveva dire che in Italia il mercato del lavoro è falsato, dell’atavica abitudiune alla raccomandazione, che l’accesso alla docenza universitaria è chiuso, endogamico e clientelista, che i programmi e le metodologie sono antiche e spesso distanti dalla realtà, che le strutture sono antiquate, quando non proprio inesistenti, e che il sistema di ricerca praticamente è abbandonato a sé stesso da decenni, dato che il budget per la ricerca l’innovazione o la formazione si riduce ogni anno, che le borse per il diritto allo studio sono scarse, etc.

Vediamo di analizzare un po’ la questione. Innanzitutto conviene chiarire già a quale laureati ci si riferisce,quando si parla di “laureati”, giacché la necessaria ed utile, ma mal fatta, riforma che ha instaurato il 3+2, ha trasformato dei mezzi laureati in laureati. Ora, la riforma si imponeva, visto che in Italia tutti vogliono il figlio “dottore”. E questo è il primo problema del nostro paese: la titolite, una malattia gravissima, che colpisce quasi tutte le famiglie e causa di molti dei disastri del nostro sistema educativo medio (liceo ed istituti) e superiore (università).

Altra questione. Il costo degli studenti fuori corso. Gli studenti universitari costano davvero un pozzo di soldi (v. Repubblica). Qualcuno si lamenta dei costi delle tasse universitarie, ma non sa che i 2.000 euro che paga come iscritto sono solo 1/10 di quanto lo stato paga per l’universitario medio, senza contare i costi pregressi delle strutture. Ogni studente costa allo stato 20.000-30.000 euro all’anno. Ora, è facile capire che se gli studenti dovessero pagarsi le tasse completamente, all’università ci andrebbe un quinto delle persone che ci vanno oggi. E questo, si badi bene, non significa che l’università diventerebbe elitista. E spiegherò perché. È in realtà la stessa confiusione che potra la gente a pensare che l’eame d’accesso è una misura discriminatoria, quando in realtà non lo è.

L’istruzione gratuita, come da corrispondente articolo della Costituzione italiana, è pensata per garantire ai capaci e meritevoli l’accesso ai più alti livelli del sistema educativo. In pratica è un sistema per garantire che le persone capaci e meritevoli, motivate e costanti, cioè intelligenti, ma capaci di sforzarsi, possano arrivare ai livelli più alti della scala dei titoli, i quali, a loro volta, danno accesso ai posti più importanti per uno stato, non solo i meglio pagati (dirigenti), ma anche i più importanti (docenti). In questo sistema borse e sovvenzioni pubbliche o private, assegnate sulla base di criteri congiunti di merito e reddito, dovrebbero garantire che persone povere ma capaci possano godere di un’istruzione superiore gratuita o sovvenzionata; allo stesso modo persone ricche ma capaci potranno accedere agli stessi posti, ma a pagamento, non gravando così sul costo che lo stato sostiene per l’educazione. È un sistema per garantire una MERITOCRAZIA: i meritevoli avanzano, indipendentemente dalla loro origine o provenienza sociale o possibilità economica. Lo stesso dicasi per l’esame d’acceso all’università. Ho passato personalmente nel settembre del 1998 l’esame di ammissione per entrare nel corso di laurea in Scienze della Comunicazione (SdC), quando ancora era una facoltà ambita e seria, con l’acceso programmato, e quindi una facoltà i cui laureati avevano ancora un “valore” di mercato in virtù della loro scarsità. Mi sono laureato (quinquennale) quasi in corso, con soli sei mesi di ritardo, dovuti alla stesura e discussione della tesi. Una mosca bianca.

Tornerò dopo sul dolore che mi ha causato vedere da un giorno all’altro il mio titolo di studio svalutarsi, in seguito ad una vera e propria inflazione dovuta all’apertura dell’accesso in alcuni atenei: mentre fino al 2000 c’erano solo 5000 iscritti all’anno in tutt’Italia in SdC, dal 2000, il primo anno in cui si aprirono i corsi (La Sapienza, Perugia, Lecce, Taranto, etc.) gli iscritti furono 5000 solo alla Sapienza!!!!

Qui invece voglio dire un’altra cosa: e cioè che posso garantire di non essere un genio, sono figlio di una famiglia modesta, di operai con la terza media, un percorso normale al Liceo Classico, eppure ho passato comodamente il tanto temuto ed osteggiato esame d’accesso all’Università, non senza aver passato l’estate della maturità a preparami. Posso assicurare che l’esame avrebbe potuto passarlo facilmente qualsiasi persona mediamente istruita, che legge i giornali e che sa fare i conti, come me. Con questo, si badi bene, non voglio dire che chi non passa l’esame d’ammissione non sia portato per gli studi universitari, come dimostra il fatto che persone che non l’hanno passato si sono poi laureati senza problemi, pochi in realtà. Invece è vero che molti di quelli che non l’hanno passato si sono poi laureati (quando l’hanno fatto) con un ritardo tremendo. Io, che non sono un genio e sono figlio di operai con la terza media, mi sono laureato in 5,5 anni e con 105/110. Ma per farlo ho dovuto compaginare il divertimento con lo studio, fare dei sacrifici e studiare.

Pero, e qui arriva il bello, ad un certo punto, le università aprono l’accesso ai corsi in SdC.
Ora, liberare l’accesso all’università ha dei grandi vantaggi, per esempio per i docenti (più lavoro) e per le istituzioni universitarie stesse, che ricevono sovvenzioni (e potere e prestigio) in base al numero di studenti iscritti. Permette agli studenti di iscriversi liberamente e di cazzeggiare liberamente all’università per anni, prima di andare poi a fare gli stessi lavori che avrebbero fatto senza la laurea, se mai fossero riusciti a prendersela.

Ma soprattutto un accesso libero all’università permette di parcheggiare masse enormi di disoccupati, che così non figurano nelle liste e nelle statistiche (senza peraltro pagargli i sussidi di disoccupazione). Permette agli studenti di non lavorare, quindi di sottrarsi alle proprie responsabilità per altri 5-10 anni. Ma soprattutto permette al Sistema Italia di funzionare come ha sempre funzionato, attraverso la  triade raccomandazione-parentela-affiliazione politica.
Vediamo un esempio. Se l’università fosse un sistema di selezione delle persone in base alle loro capacità, il titolo universitario conseguito distinguerebbe chi vale e chi no per l’occupazione di certi posti di lavoro. Ma se il titolo lo consegue chiunque, anche dopo 10 anni di studio (5 fuori corso), allora il titolo perde ogni valore. In questo caso acquisisce valore un’altra discriminante: raccomandazione-parentela-affiliazione. Ecco perché laureati di grande valore, intelligenti, preparati ma senza i “santi in paradiso” sono a spasso o all’estero. Un altro criterio per discriminare il valore dei laureati suole essere il voto di laurea. Ho assistito a scene in cui gli studenti hanno rifiutato un 28/30 perché volevano il 30/30. Situazioni come queste, oltre ad intasare i meccanismi d’uscita dall’università, che sono, si badi bene, gli esami di profitto, favoriscono il RITARDO negli studi ed i ritardatari (cioè i fuori corso), invece che l’efficacia. In altri paesi europei il voto conseguito al secondo appello vale meno che il voto conseguito al primo, e c’è un numero ridotto di appelli possibili. Quindi, per intendersi, vale di più un 24 al primo appello che un 30 al secondo, senza contare che il prezzo per l’iscrizione agli esami aumenta all’aumentare del numero di appelli cui ci si presenta.

In realtà non mi pare corretto permettere, come si fa agli studenti italiani, di presentarsi ad un esame infinite volte. Questo permette a chi ha delle risorse (soldi) per mantenersi agli studi, di ripetere un esame, allungando indefinitamente i  tempi, paralizzando l’istituzione universitaria mentre penalizza chi, avendo delle risorse limitate, deve sbrigarsi a laurearsi per mantenersi. Di nuovo, il sistema attuale è ingiusto e permette a chi ha di più di avere ancora di più.
Facciamo un esempio con i corsi di laurea di SdC. Fino al 2000 i laureati in SdC erano molto “quotati”, rendendo così secondario il valore della raccomandazione-parentela-affiliazione, fondamentale per trovare lavoro in un settore come quello del giornalismo (v. Murialdi, Il giornale). Liberando l’accesso e inflazionando il numero di lautreati, il titolo di studio non è più un criterio discriminante per accedere alla professione giornalistica, dato che non garantisce più la qualità del laureato, e così si torna alla necessità del santo in paradiso. Chiunque potrà notare che nei mezzi di comunicazione si entra per raccomandazione-parentela-affiliazione, anche perché, diciamoci la vertà, per fare il giornalista oggi va bene chiunque (si copiano i dispacci di agenzia o degli uffici stampa), mentre per fare il pescatore ci vogliono coraggio forza e mani d’acciaio. Consiglio in proposito il famoso articolo di Beppe Grillo Conigliera RAI.

So che quel che dico non piacerà agli studenti universitari italiani, né alle loro famiglie, ma è così. Quel che dico non piacerà neanche alle Università, che hanno la loro parte di colpa. Quanto dico non piacerà neanche ai professori. Diventare professore universitario in Italia è difficilissimo, non perché la selezione privilegi la qualità dei soggetti, ma perché, a parte per i figli d’arte, si arriva alla docenza solo dopo anni di precariato e di umiliazioni, di meschinità e di leccaulismo, e senza che contino le capacità la passione l’abilità per l’insegnamento (ma questo vale un po’ per tutte le categorie d’insegnamento, al meno in Italia). La ricerca scientifica è chiusa ed endogamica e sottodotata di fondi e di capacità. I programmi sono antichi e molto più corposi di quanto non lo siano per gli altri universitari europei, molto teorici e poco pratici, ma questo, di nuovo, vale un po’ per tutti i livelli d’istruzione in Italia.

Ci vuole responsabilità, sforzo, studio, interesse e maturità, da parte degli studenti, dei professori, delle famiglie. Bisogna capire che la laurea non è altro che un titolo di studio con un valore relativo: non dice nulla del valore della persona, dice solo qualcosa a proposito di una qualche capacità di passare certi esami, non dice nulla neanche circa la capacità di studio dei laureati, né circa le loro capacità intellettuali, come dimostra il fatto che veri e propri geni non si sono mai laureati o non si sono mai iscritti all'università. Bisogna quindi demistificare e smitizzare il titolo di studio, oggetto di un verio e proprio feticismo. Bisogna che le famiglie accettino che il figlio dottore non serve a niente se non contribuisce responsabilmente al progresso dello stato, DI TUTTO LO STATO, non solo della sua famiglia. Io preferisco avere un figlio spazzino, operaio, contadino, postino, ma ben pagato, condizione necessaria per spingere la gente a studiare di meno e a lavorare di più, come accade negli altri paesi europei, piuttosto che un laureato sottopagato e frustrato. Preferisco un figlio spazzino contento, convinto di stare facendo un servizio al suo paese e che lavori con la responsabilità che richiede la sua professione, piuttosto che un laureato coglione, bamboccione e sfigato (Martone), incapace di mettere in fila due parole, ma dottore (o mezzo dottore), altra peculiarità tutta italiana, giacché negli altri paesi “dottore” è solo chi ha il dottorato, ed al semplice laureato (o al mezzo laureato) non si riserva nessun trattamento o nessun titolo.

La verità, invece, è che siamo una società di padroni e di schiavi e sognamo tutti di essere padroni. Dovremmo invece cominciare a capire che siamo tutti uguali e che siamo tutti necessari allo sviluppo organico dello stato, a prescindere dal titolo di studio, dalla posizione sociale e dalla ricchezza. Dobbiamo cominciare a capire che il valore non dipende dal titolo, ma dal senso della responsabilità, dal rispetto per gli altri e per le leggi, dall’etica, dall’educazione, dall’altruismo, dalla capacità di amare di ciascuno di noi. Meglio uno spazzino rispettoso che un "dottore" stronzo ed ignorante, giacché la conoscenza non dipende dal livello di studi.

1 comentario:

  1. Excepto una o dos oraciones, creo que puedes cambiar las referencias italianas (ciudades, universidades) por cualesquiera de España y traducir esta reflexión al español porque el discurso será igualmente válido.

    A colación de tu texto, añadiría el sinsentido y la ambición de (casi) todas las universidades españolas por coleccionar todas las titulaciones, con el consiguiente aumento exponencial del número de plazas ofertadas. Ejemplificando en mi área, que alguien me explique la decena de universidades entre públicas y privadas que ofrecen el grado de Arquitectura en Madrid, si bien hace tan sólo diez años la oferta se reducía a cuatro o cinco. Con una admisión de unos 200 alumnos al año cada una, estimemos unos 1500 arquitectos MÁS recién titulados al año sólo en Madrid.

    Como bien comentas, esta situación solo nos lleva a la infravaloración del título (casi cualquiera puede ser arquitecto hoy en día) y al aumento de la demanda de trabajo (porque con "ladrillazo", con crisis o sin ella, el actual ratio de 12 arquitectos por cada 1000 habitantes es excesivo para cualquier crecimiento moderado y sostenible). Aquellos que hayan sacado sus conclusiones entenderán que la solución inmediata pasa por la especialización y el tan de moda "Máster" que no es más que un papelito que dan a cambio de unos miles de euros (dirigido al que más tiene, como tú bien dices) o por emigrar (con la consiguiente pérdida para el país que eso supone: fuga de capital humano en el que se ha invertido a través de becas y ayudas que hemos financiado TODOS).

    En fin, Screti, sólo dejo una pequeña reflexión, el tema da muchísimo de sí.

    Una vez más 'ME GUSTA' ;)
    Isa Asturias

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